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Posts Tagged ‘Jugoslavia’

Vorrei ricordare, con qualche giorno di ritardo, il 5 aprile del 1992. Diciotto anni fa le truppe serbe circondano Sarajevo, la capitale bosniaca, città multietnica, aperta e viva. L’assedio dura quasi quattro anni, fino al 29 febbraio 1996. Come raccontare oltre 10.000 morti rendendo loro giustizia, crani e petti di vecchi e bambini divelti da freddi cecchini? Non lo so. Lascio però una testimonianza diretta di quei giorni, che nella sua immediatezza mi è parsa il mezzo più genuino per ricordare quegli anni, e chi è stato assassinato.

Sarajevo, marzo 1996.

<<Una mattina siamo uscite, mia cognata ed io, per la serie non ci sono spari, c’era già stata una breve tregua del genere o simile, e in più era una giornata di sole, e allora speravamo che la tregua sarebbe durata almeno tutta la mattina. Verso di noi viene allora una donna, con un distinto cappotto bianco, scarpe bianche col tacco, vestita così, proprio curata, e sopra il cappotto aveva indossato una scatola in cartone, e andava in giro così, cantando, ci incontra e ci dice: “Care mie, vi dico qualcosa in confidenza, andate solo nella natura, solo nel verde, là dove sono farfalle e uccelli”, e capiamo che la donna è matta. E d’un tratto, la consapevolezza di questo, che è ammattita per la guerra, perché da come è vestita è chiaro che era una donna curata, che lavorava non so dove, in qualche banca, alla posta o che so, e che tutto funzionava fino alla guerra, e che è stata la guerra a rimbecillirla, suscita in te un tale brivido, la sensazione che non è una cosa che succede solo agli altri, che ci sei così vicino, per il continuo stress, la paura, il cibo cattivo, quella orrenda paura dell’inverno… mi sembra che già a settembre la paura dell’inverno a Sarajevo iniziasse ad essere peggiore della paura della morte. Lì si traffica con tutti e con tutto: prima si trafficava con ciò che era stato rubato dai negozi, probabilmente ancora la gente ha di questa roba nascosta da qualche parte, e aspetta il momento giusto in cui la potrà esporre, per esempio Oslobodjenje titolava che avevano trovato quattro tonnellate di formaggio che era arrivato con gli aiuti umanitari, quattro tonnellate di formaggio! Il tizio le aveva chiuse nel suo garage, o non so dove, le ha sistemate da qualche parte. Si traffica praticamente con qualsiasi cosa, al mercato durante l’estate l’unica cosa che si poteva trovare – penso che l’abbiate visto in tv, che sia giunto fino a Belgrado – erano mucchietti di ortica nera, o foglie di barbabietola, erano l’alternativa agli spinaci, o in generale a qualsiasi verdura. Noi raccoglievamo i denti di leone attorno a casa: quando si mettono i denti di leone nel riso, il riso assume un altro colore, e il pranzo cambia persino un po’ sapore.

La mia amica ed io siamo andate ad esempio un giorno alla croce rossa, io tentavo assiduamente di finire su quella lista per i convogli, e poiché erano distanze enormi, il trasporto pubblico non funzionava, tutti quei cavi per i quali passavano i filobus e i tram tagliati, e i tram divelti coi vetri rotti, erano sparsi un po’ per tutta la città, lungo i binari, a una distanza che so, di 200, 100 metri. E poi ci sono quei punti dove la strada si stende a tal punto che la visuale dai monti, da Vraca o Trebević è totale, e da quelle strade ci stanno tutti alla larga, perché lì stanno appostati i cecchini, e per quel motivo, perché comunque la gente possa da qualche parte passare, sono barricate con degli enormi container in ferro. Ora arriviamo la mia collega e io – non so più se sto raccontando una storia di senso compiuto e se questa storia si riesca a seguire – passiamo vicino a questi container di ferro, e perché ci eravamo perse in chiacchiere, avremmo proseguito ancora qualche metro scoperte da questa protezione, anche se vediamo che dietro questi container sta della gente, perlopiù anziana, e uno di questi ci dice: “Dove andate, donne?! Ferme, ferme! Non vedete che il cecchino batte?”, e allora sentiamo il colpo, vediamo proprio come il proiettile colpisca l’asfalto della strada, e ci ritiriamo. Allora dall’altra parte della strada verso di noi si dirige un signore anziano, un signore sulla settantina, probabilmente anche a lui hanno gridato “Ehi, non andare, vecchio, non andare!”, ma lui non ha sentito, e ora va. E allora il cecchino apre il fuoco, e proprio a fianco della sua scarpa strappa un pezzo d’asfalto il proiettile, e quel pezzo d’asfalto lo prende sotto al mento, e lui così vecchio comunque si mette a correre, supera quel punto critico tenuto sotto tiro dal cecchino, e arriva da noi, e l’unico problema, poveraccio, si tocca quel punto del mento e grida “Dov’è il sangue?! Dov’è il sangue?! Dov’è?!!”, perché pensa il proiettile gli abbia preso la mascella e cerca il sangue. Allora ovviamente si spendono diversi minuti prima che comprenda che è stato l’asfalto a colpirlo, e non il proiettile, ma mentre noi ci curiamo del vecchio dal nostro lato della strada, dall’altra parte arriva una donna giovane, forse sui trentacinque, con un vestitino nero, sembrava un’impiegata, di nuovo anche lei curata, si vede o che era stata a lavoro, o simile, e di nuovo lo stesso che aveva gridato a noi le dice “Ehi, dove sta andando? Il cecchino spara!”. Lei fa un gesto stanco con la mano, come per dire “Lo so, qui il cecchino spara sempre, ma io passo”, fa tre passi e il cecchino la prende al collo. Ora il sangue sprizza dalla ferita, noi ci troviamo al massimo a un metro e mezzo da lei, e nessuno osa avvicinarsi, per aiutarla, per tirarla fuori, e questa sensazione terribile, che tu non possa fare quei tre passi per tendere la mano a qualcuno a cui il sangue schizza dal collo e tirarlo fuori, è orribile a tale punto, sminuente per tutti i sentimenti di amore verso il prossimo, per quei sentimenti più basilari dell’uomo che si offrono non dico alle persone, anche solo a un cane, è così terribile che tremo tutta, ma tutta, con tutto il corpo, non come quando tremano le spalle, o le mani, ma tutto il corpo come se fosse staccato da terra, e la mia collega urla a squarciagola, per la stessa ragione, né per paura, né perché a quella donna scorre il sangue, ma per quella sensazione, di non poterla aiutare. E allora un altro di quegli uomini schiacciati lì con noi le dice: “Per prima cosa schiacci quel punto con la mano, lì dove sente che brucia, schiacci come sa e può per non perdere troppo sangue, e poi provi a puntellarsi, a spingersi coi piedi contro l’asfalto, per passare quel metro e mezzo da sola, perché noi non possiamo avvicinarci, perché allora anche per noi non ci sarà nessuno ad aiutarci”. E per tutto quel tempo il cecchino continua imperterrito a sparare, vicino a lei, o meglio sopra a lei, perché probabilmente non l’ha più nel suo campo visivo dettato dal mirino, ma sa di averla colpita, e continua a spaventare i restanti. E lei poverina, in quel tempo si spinge in qualche modo, non lo so, con le ultime forze, con la forza della disperazione, per istinto di sopravvivenza, e si avvicina sempre più, ma i vestiti le restano indietro, schiacciati, e non riusciamo ad afferrarla, allora gli uomini si tolgono le cinture, e le lanciano, cercano in qualche modo di prenderla, aiutarla, e alla fine in qualche modo la tiriamo fuori. Nel frattempo un altro individuo dall’altra parte della strada, un poliziotto credo col walkie-talkie ha già chiamato l’ambulanza, arriva l’ambulanza e la carica dentro, e noi per altre quattro ore piene restiamo lì, rannicchiati dietro quell’affare di ferro che continuano a chiamare container, non so perché ma anch’io l’ho assimilato, anche se non ha nulla a che fare coi container, e per di più è ormai talmente sforacchiato dai colpi dei cecchini che ci stiamo tutti rannicchiati in basso, e ci sono anche persone anziane, e non è facile, e non sai che fare, in più pioveva, c’era fango, e non potevi nemmeno sederti, ed è tutto nel complesso così orribile, così… tutti stanno zitti, stanno così pazientemente lì rannicchiati, e non sono spaventati, ed è questo a fare più paura, semplicemente stanno lì, aspettano che passi qualcosa senza speranza, orribilmente privi di speranza. Semplicemente è questo, è questa la cosa più tragica della situazione.

Infine il cecchino smette di sparare, e di nuovo lo stesso signore, che passa sempre di lì, perché di lì va a lavorare e torna a casa, ci avvisa che ormai probabilmente, visto che non spara da più di mezzora, non sparerà proprio oltre, ha finito il suo turno, ora possiamo passare. Allora di nuovo corriamo presto dall’altra parte, non si sa mai, nel frattempo è sceso il buio, di nuovo quel signore ci tranquillizza perché vede che noi due abbiamo avuto una reazione strana, lì mentre quella donna sanguinava, “Non abbiate paura”, dice vedendo che siamo due signore di una certa età, “Non abbiate paura, a Sarajevo il buio è la miglior sicurezza, in più c’è ancora tempo per il coprifuoco, arriverete alle vostre case”. Allora in quel buio, per quelle buche, per quell’asfalto divelto… Sapete ad esempio a cosa assomigliano i punti sull’asfalto dove cade una granata? Come un fiore. Così esplode la granata. Scava una fossa, un buco, e poi a raggiera tanti tanti buchi più piccoli, ma a raggiera, e lontano, così che sembra che qualcuno, bucando l’asfalto, ci abbia disegnato una rosa.>>

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Ljubljana, 1947. Gruppo di emigrati isontini durante una pausa del lavoro volontario.

Oggi vorrei raccontare di una parentesi minore ma molto significativa del dopoguerra italiano, scivolata via – chissà perché – dai canali della storia ufficiale, eppur così interessata in questi ultimi anni a studiare e riscoprire le vicende degli italiani in Jugoslavia alla fine della Seconda guerra mondiale. Io stesso mi ci sono imbattuto del tutto casualmente, attraverso uno splendido radiodocumentario realizzato da Andrea Giuseppini nel 2006, prodotto da Amis e Radioparole, gentilmente inviatomi dall’autore stesso.

Il sogno di una cosa prende il titolo da un’opera pasoliniana e, come il lavoro narrativo di Pasolini, nasce nel mondo rurale di un Friuli immiserito. Tra il 1946 e il 1947 alcune migliaia di lavoratori, contadini, disoccupati lasciano l’Italia e passano illegalmente la frontiera jugoslava. Sono anni confusi, di inquietudine e speranza. Anni in cui lo stesso destino di Trieste pare oscillare fra Est e Ovest, dove alcuni, forse più di quanti si voglia far credere oggi, aspirano alla “settima federativa”, a quella porzione di territorio comprendente Trieste e provincia che si vorrebbe far passare sotto lo stato jugoslavo. Manca il lavoro, mancano le case, il cibo. Eppure non è solo la fame a spingere a questo controesodo, è anche qualcos’altro, qualcosa di più: è l’ideale di un mondo diverso, perché “di là era il comunismo, a cercare la fortuna”.

È un paese che deve rinascere, venire ricostruito dalle fondamenta. Mancano le infrastrutture, i servizi, e soprattutto le maestranze e le conoscenze per dare vita a tale processo. Così se da un lato sarà la competenza dei lavoratori di Monfalcone a dar vita alle industrie cantieristiche di Pola e Fiume, dall’altro molti zappaterra verranno formati proprio lì, sul posto, a diventare costruttori edili, carpentieri, falegnami. Attraverso le vecchie, calde voci di alcuni testimoni, uomini e donne ormai ottuagenari, riaffiora in un linguaggio semplice, a tratti desueto, il sogno, la speranza di una società nuova, nuda ma per questo intesa come ricca di opportunità, a cui volgersi e dedicarsi con l’idea di “andare a costruire il socialismo”.  Lo stupore maggiore è scoprire che davvero, nonostante tutte le difficoltà del dopoguerra, le prospettive sono effettivamente superiori a quelle di un’Italia stagnante, ancora lontanissima dal boom economico che solo dagli anni ’60 le permetterà di risollevarsi da una miseria cronica e diffusa. La partecipazione entusiastica alle brigate di lavoro volontario per la costruzione di grandi opere, strade e ferrovie, alla vita locale, agli spettacoli, alle manifestazioni sportive, crea un senso d’appartenenza e fiducia tra popolazione locale e immigrati italiani stupefacente, considerato anche il recentissimo passato di occupazione nazista e fascista. Sono anni in cui davvero l’impossibile sembra possibile, dove i diritti fondamentali, l’uguaglianza e la giustizia paiono mete raggiungibili e pilastri realizzabili.

Tutto ciò però giunge a una fine brusca e inattesa, quando nell’estate del 1948 la Jugoslavia di Tito viene espulsa dal Cominform, la lega dei partiti comunisti voluta da Stalin dopo la fine della guerra, e che univa i PC dei diversi paesi europei, tra cui anche l’Italia.  Si entra in un fase di terrore, sospetto, nella quale il partito jugoslavo usa il pugno di ferro contro gli stalinisti veri e presunti, nella pericolosa (e poi riuscita) lotta di mantenimento del controllo e dell’indipendenza rispetto alla sfera d’influenza sovietica, alle sue porte. Gli italiani, in maggioranza legati ad un PCI che attraverso Togliatti aveva manifestato il proprio appoggio alla scomunica di Tito per la sua politica “deviazionista”, si trovano spiazzati. Non comprendono più il corso degli eventi, legati ancora al mito della Russia socialista, non accettano il nuovo corso jugoslavo, e come tali, di fatto, si trovano costretti, con le buone ma spesso con le cattive, a lasciare il paese. La maggioranza dei friulani e monfalconesi rientrano in Italia, ma alcune centinaia solo dopo aver trascorso anni nelle dure prigioni del regime titino, come l’isola di Goli Otok, per la rieducazione dei cominformisti.

Ritengo che questa vicenda possa rivelarsi un’efficace chiave di lettura per quanto riguarda la precedente e forse anche contemporanea vicenda dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, che si tende spesso a far passare, per ragioni discutibili, un mero fatto etnico e di odio razziale, quando ha avuto alla base ben più gravi e implicanti motivazioni politiche e storiche, poi certo degenerate, ma non credo pregiudizievoli verso gli italiani semplicemente in quanto tali.

Per chi fosse interessato lascio l’indirizzo di Radioparole, con la speranza che progetti di ricerca come questo riescano a trovare più spazio e voce in un mondo che sempre più spesso e sempre più forte grida senza cognizione di causa né interesse alla (ri)scoperta.

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Tratto da peščanik.net (21.01.2010)
di Dubravka Ugrešić
traduzione di Filip Stefanović

Moj dečko je toliko bogat da ne mora da liže poklopac od euro-krema! [Il mio ragazzo è così ricco che non deve leccare il coperchio dell’Eurocrem.] – recita il graffito su un muro grigio di un grigio centro abitato da qualche parte in terra ex jugoslava. L’Eurocrem è rimasto nella coscienza gastronomica dei cittadini dell’Ex Jugoslavia come: a) un economico alimento per bambini; b) la merenda dei soldati dell’ex JNA (esercito jugoslavo, ndt.); c) colazione alberghiera per i poveri pensionati nazionali e stranieri che trascorrevano le vacanze negli alberghi adriatici, soprattutto in inverno.

Sembra che l’idea di povertà si sia finalmente conficcata nella testa del cittadino medio ex jugoslavo. Allettato dalla disintegrazione della Jugoslavia (“c’hanno derubato i comunisti”), dall’amor patrio, dalla guerra (“la guerra c’ha immiseriti”), dall’odio verso i serbi, o croati, o sloveni (“loro c’hanno distrutto economicamente”), il cittadino medio ha finora evitato il confronto con la propria condizione sociale. È sopravvissuto consolato da risorse parallele (“venderemo la terra”; “abbiamo ereditato da papà”; “abbiamo un grande orto, abbastanza da sfamarci”; “se bisogna stringere la cinghia, venderemo la casa delle vacanze”; “mio zio è direttore, per me si troverà sempre qualcosa”; “la nonna ci lascia la casa in eredità”; “a mio fratello in Germania le cose vanno bene, non ci lascerà, penso, morire di fame”; “affitteremo la casa per le vacanza a stranieri”; “se non altro, possiamo sempre vendere la tomba di famiglia”). Le risorse si sono spente, le opzioni sono state sfruttate, gli assi nella manica giocati, la casa della nonna è al vento, la terra venduta, la società s’è divisa tra pochi ricchi e tanti poveri, in veri campioni e perdenti. Ricchezze accumulate troppo in fretta si sciolgono, le imprese falliscono, le persone restano disoccupate in massa, lo zio-direttore è in prigione, la tomba di famiglia è stata da tempo consumata. Molti lavorano e già da mesi non ricevano lo stipendio. Lavoratori più fortunati ricevono metà paga, di questa metà in denaro, l’altra metà in buoni. I buoni tra l’altro li possono spendere solo nelle industrie in cui lavorano. Li spendono in salsicce a cui è scaduta la data o in Eurocrem a cui non scade mai. Molti lavorano anche al sabato, sebbene nessuno ci veda una ragione né un senso, se non, chiaramente, per il proprietario che con ogni mezzo lecito cerca di spingere i proprio dipendenti a dimettersi.

La coppia marito e moglie Pevec, proprietaria di una catena commerciale croata prosperosa fino a non molto tempo fa, oggi è in bancarotta. Dietro di sé hanno lasciato centinaia di lavoratori tartassati che all’inizio non hanno ricevuto lo stipendio per mesi, per poi essere finalmente licenziati. Alle recenti feste nell’hotel locale la coppia Pevec si divertiva parecchio ballando fino a notte inoltrata. Gli impiegati dell’albergo – che a sua volta è insolvente, e non li paga da mesi – osservavano l’inaccettabile divertimento dei magnati croati senza fiatare.

Solo questi “divertenti” dettagli passano per i media croati. All’amara quotidianità è rimasto di crepitare anonimamente. Le notizie in prima pagina – del tipo che l’attrice americana Jennifer Love Hewitt, a parte la costante rasatura e taglio, ha di recente adornato i suoi genitali con un piercing vaginale con cristallo Swarovski, e ora quella cosa, come lei stessa dice, splende come una palla da discoteca –  attirano le masse immiserite come irrigatori accesi notte giorno. La propria vita da schiavi sembra loro come una palla da discoteca.

Ma davvero da schiavi? L’unitario idillio europeo inizia lentamente a mostrare la sua faccia oscura: il nuovo mercato schiavista scorre per le vie sommerse d’Europa. Una “incensurata” azienda d’asparagi in Repubblica Ceca, che coltivava asparagi per un “incensurato” grossista nei Paesi Bassi, assumeva come raccoglitori degli adatti romeni. Perché adatti? Con i loro passaporti UE potevano attraversare senza problemi i confini, e la questione dei permessi di lavoro inesistenti in qualche modo veniva sottaciuta.

A reclutare i raccoglitori romeni era una banda ucraina. I romeni non hanno mai visto la paga promessa, e vitto e alloggio erano da schiavi. I brutali schiavisti ucraini li minacciavano di morte in caso di fuga.

Grazie ad alcuni fuggitivi ed al fatto che hanno trovato il coraggio di rivolgersi all’ambasciata romena in Repubblica Ceca, la catena schiavista è stata (temporaneamente) interrotta. In realtà, per tutto questo ci sono voluti due-tre anni, e ciò ha portato ai proprietari d’asparagi due-tre anni di lavoro gratuito. Di fattorie simili per l’Europa ce ne sono parecchie, di simili mercanti di schiavi molti, di simili disperati troppi, e di simili corrotti poliziotti e giudici ovunque quanto basta.

I media, al contempo marcatamente di transizione, dell’Europa dell’Est, per anni si sono sforzati di dimostrare che l’educazione, la professionalità e la competizione non sono garanzia di una vita stabile e prosperosa. Il Grande Fratello, vero divertimento di masse milionarie, ha dimostrato che chiunque può se vuole, e che può grazie a qualunque cosa. Lo show è stato in qualche modo anche una sorta d’anticipazione del futuro prossimo. L’istruzione è stata detronizzata dai media e dalla prassi quotidiana, e sul piedistallo del valore è stato piazzato il corpo. L’unica cosa che l’uomo comune ha a disposizione è il corpo, e tu pensa, s’è dimostrato che ha un suo valore sul mercato. Il corpo si può vendere. Il corpo si può abbellire, gonfiare di silicone, bucare di botox, diminuire, dimagrire, ingrossare, pompare, tatuare, vestire, denudare. Del corpo si può aumentare il valore commerciale, bisogna solo sapere come.

Prostitute, donne, ma anche uomini, vendono il corpo direttamente. Alcuni genitori vendono i proprio figli. Alcuni figli vendono se stessi, senza interlocutori. Alcuni mendicanti si impiccano da soli, per aumentare gli introiti con la pietà. Molti indiani vendono i propri organi. Alcuni uomini vendono il proprio sangue. Anche un corpo morto ha un suo valore. Secondo alcune indagini di Amnesty International, 6000 detenuti cinesi sono condannati annualmente alla pena di morte. Il 90% dei reni trapiantati provengono da detenuti cinesi giustiziati. I ricchi stranieri pagano tra i 10.000 e 40.000 dollari per un rene. La raccolta di organi non si limita solo ai reni, chiaramente. Nelle prigioni cinesi le esecuzioni vengono condotte con cura. Se il condannato è di salute cagionevole, gli si spara in petto, se è un candidato per la “raccolta di organi”, gli si spara in fronte.

I corpi comuni di gente qualunque si usano per scopi artistici. Nic Green ha messo in scena ad Edimburgo (nell’agosto 2009) un progetto, “Ricerca teatrale del femminismo contemporaneo”, chiedendo a comuni, anonime donne, volontarie, di salire sul palco nude. Alcune hanno vissuto l’esperienza di apparire senza veli sulla scena come l’affermazione della vita.

A differenza del regista inglese socialmente autistico, il regista teatrale croato Borut Šeparović dimostra una maggiore sensibilità sociale. Lui si è rivolto allo Sportello lavoro e ha chiamato le donne disoccupate ai provini. Da circa duecento candidate ne ha estratte undici. Le donne vestite con la maglia della nazionale di calcio terranno una rappresentazione in onore del calcio croato e al contempo racconteranno le loro storie personali di disoccupazione. Non sono donne volontarie, non sono interessate all’arte come affermazione di vita. Per la loro partecipazione riceveranno un modico compenso.

Chissà, forse anche il popolare show televisivo Ballando con le stelle è solo un’introduzione a una possibile prassi quotidiana, a quelle maratone del ballo che abbiamo visto quarant’anni fa nel film di Sidney Pollack Non si uccidono così anche i cavalli?. Maratone del ballo, in cui i concorrenti, coi loro danzanti, affamati corpi, lottavano per un premio in denaro, o forse solo per del cibo, erano popolari ai tempi della recessione americana.

L’artista Christian Boltanski, che ha compiuto 65 anni, ha recentemente venduto la propria vita al milionario e collezionista australiano David Walsh. Per i prossimi otto anni, a cominciare dal 1 gennaio 2010, quattro telecamere filmeranno senza interruzione l’atelier di Christian Boltanski e trasmetteranno tale inusitato Grande Fratello con un solo concorrente in qualche grotta della Tasmania. Se Boltanski sopravvive ai prossimi otto anni, riceverà l’intera somma per la vendita della propria vita. Se muore prima, non avrà nulla.

Erisitone, uomo di Tessaglia, tagliò un albero nel giardino di Demetra per costruirsi una casa. Demetra lo punì con la fame eterna. Erisitone morì mangiandosi da solo. Se rigettiamo le interpretazioni ecologiche di questo mito, allora la storia di Erisitone ci può servire come l’ennesimo esempio che per lo scopo della sopravvivenza temporanea possiamo sfruttare ciò che tutti abbiamo: il nostro corpo.

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Beograd 1999

Se verrà la guerra, Marcondirondero
se verrà la guerra, Marcondirondà
sul mare e sulla terra, Marcondirondera
sul mare e sulla terra chi ci salverà?

Ci salverà il soldato che non la vorrà
ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà.

Il 24 marzo 1999 la NATO, senza il consenso delle Nazioni Unite, iniziava a bombardare la Serbia e Belgrado. Oggi, dieci anni dopo, alle 12 in punto in tutto il paese si è osservato un minuto di silenzio, in memoria dei 3500 morti, di cui 2500 civili e 89 bambini.

La guerra è già scoppiata, Marcondirondero
la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà?

Ci aiuterà il buon Dio, Marcondirondera
ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà.

Buon Dio è già scappato, dove non si sa
buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà.

Che cosa ricordo, io, di quei giorni? Ricordo le immagini dei telegiornali, e mia mamma che ogni sera scoppiava in lacrime vedendo la sua bellissima città così martoriata. Ricordo l’abbattimento dell’antenna TV alta 200 metri sul monte Avala, uno dei simboli più cari ai cittadini belgradesi, tutto fuorché un obiettivo militare strategico. Ricordo il bombardamento della raffineria sul Danubio, e la nera nube che coprì tutta la città. Ricordo anche quando colpirono la sede della televisione nazionale RTS, e i giornalisti e tecnici di 20-30 anni dell’edizione notturna che vi restarono sotto. Ricordo mia nonna, e quanto era difficile stabilire un collegamento telefonico, le linee sempre occupate, o a vuoto. Ricordo poi quando riuscimmo finalmente a farla venire da noi, era maggio credo (i bombardamenti continuarono incessanti fino all’11 giugno). Era stanca e provata, non dormiva da settimane per le continue sirene, le bombe, gli aerei. Ricordo che anche qui, quando capitava di scorgere un aereo di linea venire od andare da Linate, iniziava ad agitarsi, si voltava dall’altra parte, quasi non riuscisse a scaricare più l’immagine e il trauma di altri aerei in altri cieli…  quasi che a sorvolarci non fossero vacanzieri e bagagli, ma missili intelligenti e bombe all’uranio impoverito. Ricordo quando qualche anno più tardi, vedendo un documentario in TV e sentendo quel suono familiare delle sirene antiaeree, le venne quasi un attacco di panico.

L’aeroplano vola, Marcondirondera
l’aeroplano vola, Marcondirondà.

Se getterà la bomba, Marcondirondero
se getterà la bomba chi ci salverà?

Ci salva l’aviatore che non lo farà
ci salva l’aviatore che la bomba non getterà.

Poi a Belgrado giunse l’estate, e io con lei. Cos’era rimasto? Ricordo i palazzi del governo, le sedi dell’esercito, il grattacielo del partito della moglie di Milošević sfregiati dalle bombe, i ponti del Danubio annegati nelle sue acque. Impressionanti voragini su edifici costruiti in cemento armato, piegati come carta. Porte che davano sul vuoto, brandelli di tende a penzolare dalle finestre, segni di schegge e vetri rotti su tutti i palazzi circostanti, a 100 metri almeno. Ricordo le scritte sui muri, i graffiti antiamericani e contro la guerra, quell’umorismo underground così tipico di Belgrado, che nessuna guerra è riuscita e riuscirà mai a sconfiggere: “Colombo, fottuta la tua curiosità!”, o “Portare la pace con le bombe è come preservare la verginità di una ragazza trombandola”. L’antiamericanismo era alquanto diffuso, e colpiva non solo gli Stati Uniti, ma tutti i suoi alleati nell’impresa: Italia, Inghilterra, Germania, Olanda… Ricordo un McDonald’s completamente distrutto dai dimostranti a marzo, lo stesso dicasi dei centri culturali tedesco e francese nella centralissima via Knez Mihajlova. Gli studenti di lingue fecero man bassa dei volumi, e poi se li scambiarono allegramente: “Hai Hugo? Io studio francese, dallo a me, prendi questo Goethe, tieni…”. Non era però un appoggio al regime, più semplicemente la disillusione e l’amarezza di un popolo orgoglioso che si vedeva ora abbandonato anche da quell’occidente in cui credeva e in cui si rispecchiava, facendone legittimamente parte. Dopo che venne colpita la residenza di Milošević si potè leggere anche “Slobo, proprio quando avevamo più bisogno di te, non eri in casa.”

La bomba è già caduta, Marcondirondero
la bomba è già caduta, chi la prenderà?

La prenderanno tutti, Marcondirondera
sian belli o siano brutti, Marcondirondà

Sian grandi o sian piccini li distruggerà
sian furbi o siano cretini li fulminerà.

Ricordo la preoccupazione di mio papà, che non ci vandalizzassero la macchina parcheggiata, visto che portava una targa italiana. Ricordo la difficoltà di trovare la benzina, nonostante la guerra fosse finita da diverse settimane, le pompe perennemente a secco, i venditori del mercato nero ai bordi delle strade con le loro taniche piene di chissà quali intrugli. La vita intanto correva come prima, le strade piene di gente, i negozi di grandi marchi, i chiassosi caffè all’aperto o sugli splav (grossi barconi) ormeggiati sul lungofiume. Ricordo i sacchi di sabbia, i bunker, le postazioni vuote dell’esercito, gli ostacoli anticarro in cemento sulla strada verso sud, andando in Grecia al mare. Ricordo di essere passato verso Grdelica, dove era stato colpito un treno civile proprio mentre attraversava un ponte ferroviaro sulla Morava. 14 morti e 16 feriti tra i passeggeri, la carcassa del treno era ancora lì, completamente carbonizzata. A 10 anni mi lasciò a bocca chiusa, ma mi fece meno effetto del suo stesso ricordo ora.

Ci sono troppe buche, Marcondirondera
ci sono troppe buche, chi le riempirà?

Non potremo più giocare al Marcondirondera
non potremo più giocare al Marcondirondà.

E voi a divertirvi andate un po’ più in là
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà.

La guerra è dappertutto, Marcondirondera
la terra è tutta un lutto, chi la consolerà?

Ci penseranno gli uomini, le bestie i fiori
i boschi e le stagioni con i mille colori.

Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più
viventi siam rimasti noi e nulla più.

La terra è tutta nostra, Marcondirondera
ne faremo una gran giostra, Marcondirondà.

Abbiam tutta la terra Marcondirondera
giocheremo a far la guerra, Marcondirondà…

Girotondo, Fabrizio De André, Tutti morimmo a stento (1968)


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Ne volim januar, Đorđe Balašević, Bezdan (1986)

Non mi piace gennaio, né i bianchi demoni invernali.
In ogni neve vedo le stesse impronte,
impronte di piccoli piedi, numero trenta e chissà,
che piano si allontanano.


Non passo più per via Dositej
e non ho idea di dove sia quando qualcuno chiede,
quei duecentosei passi lungo il vicolo
io non li ho mai contati.


Non ti ho mai protetto,
non ti ho mai carezzato, curato.
Calpestavo il tuo amore,
inventavo numeri per tutto.


Non ti ho mai risparmiato,
e non ho saputo fermarmi né restare.
Cosa rimarrà di me,
piccolo angelo mio?


Non guardo quei film dei primi anni settanta,
troppe lacrime e addii infelici.
Chi è il regista? Ce n’è di gente strana,
così facile alle lacrime.


Non ti ho mai protetto,
non ti ho mai carezzato, curato.
Calpestavo il tuo amore,
inventavo numeri per tutto.


Non ti ho mai risparmiato,
e non ho saputo fermarmi né restare.
Cosa rimarrà di me,
piccolo angelo mio?

[Ed era una notte di quelle che quasi nemmeno sanno più esserci, a Novi Sad, sul Danubio…
Io venivo da un posto dove erano tutti rossi in viso, come il vino caldo che bevevano, dove odoravano tutti di chiodi di garofano e cantavano “Roždestvo tvoje”, e altre canzoni che… non è che proprio si cantassero allora.
Era notte, e a lungo sono rimasto sotto la sua finestra, davanti a quella casa numero 7A, in via Dositej. C’era silenzio, solo l’eco dei passi, giù, lontano, verso l’autostrada, dietro quel cavalcavia, forse anche più lontano… e lo sbattere di ali perse attorno alla chiesa di Almašk. C’era silenzio, ma invano, nemmeno per un secondo l’ho sentita respirare, nel sonno… la mia piccola, che respira…]

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