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Posts Tagged ‘ricordi’

De André canta De André, Milano, 08 marzo 2010

Ieri sera ero al teatro Smeraldo di Milano, al primo di due concerti – il secondo questa sera – di Cristiano De André, che, come dice il nome del tour, ripercorre le canzoni del padre. Per me, per il quale uno dei maggiori rimpianti di sempre è stato non fare in tempo ad assistere dal vivo a un’apparizione di Fabrizio De André, è stata una grandissima emozione. Non cercherò nemmeno di raccontare a parole l’evento, la ricca scaletta (credo almeno una ventina di canzoni), Cristiano sul palco, i suoi figli e Dori Ghezzi con noi tra il pubblico, gli aneddoti e i ricordi personalissimi di un figlio del proprio padre. Sarebbe comunque riduttivo classificarlo come un concerto tributo, e gratuito dire che Cristiano campa semplicemente della figura di Fabrizio. È innegabile il tocco personale e innovativo dato agli arrangiamenti, una vena fortemente rock che parte e ricorda le versioni della PFM (magistrale l’interpretazione di Amico fragile!), ma sa spingersi perfino oltre. Tutto ciò a pari passo con una figura, un portamento, un tono di voce caldo e pastoso, un modo di porsi e di parlare, da quei pudici e lapidari “Grazie.” alla fine di una canzone, al modo di appoggiarsi alle vocali in un discorso, che ricordano in maniera vigorosa, a tratti impressionante, papà Fabrizio.

Inutile, tutte le emozioni, le sensazioni ancora fresche e brucianti, la musica nelle orecchie, i versi, la forza poetica e vitale di parole che sembravano più grandi dell’affollatissimo teatro che le conteneva. Ricordi veri e presunti che resteranno per sempre, di una serata in cui anch’io per un giorno, per un momento, corsi a vedere il colore del vento.

Filmati di zemo84.

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Cicatrici

03.09.2008

La cicatrice è un tessuto fibroso che si forma per riparare una lesione, patologica o traumatica.   [Wikipedia]

È trascorso esattamente un anno. Incredibile, come sia facile gettare il tempo al vento. Che senso hanno, questi segni sulla pelle? Cosa lasciano, oltre alla loro presenza evidente? Lo schifo di una ferita aperta, della nostra stupida, stupidissima vulnerabilità. Cosa ricordano, a cosa collegano? E ci sono cicatrici peggiori, più profonde, che non intaccano nemmeno la carne, non lasciano segni visibili. Non hanno bisogno di un calzino per essere coperte, né ferite evidenti alle quali essere collegate.

Segni particolari… chi siamo? Cosa ci differenzia, cosa ci rende unici? Le botte o i sorrisi? Ha valore l’unicità? Se siamo irripetibili, dove si cela questo mitologico valore? Inadeguati, incompatibili per l’esperienza comune: perciò senza valore. Il piede ferito e la testa che dole, e più andiamo avanti più è difficile capire quale sia la causa del male, siamo un tiro a segno di spiacevoli coincidenze, e non sta a noi scegliere se e quando verrà colpito il bersaglio. Siamo ciò che siamo, ciò che crediamo di essere, o il più delle volte ciò che gli altri vedono in noi. Le pressioni nascono sempre dall’esterno, le incomprensioni dall’interno.

C’è un senso? Cerchiamo un senso. Ci rafforziamo, cresciamo. La vita riserva sorprese dietro ad ogni angolo. Ma verso dove stiamo correndo? Di che cosa esattamente ci stiamo preoccupando? Bollette. No, non c’è un senso. A qualcuno va meglio, a qualcuno peggio, ed il meglio che possiamo sperare e di inventarci Dio, dargli una copia delle chiavi per quella porta che non riusciamo ad aprire, e poi subito dopo perdere la nostra. Alleggerirci le tasche. Pregarlo, ora che possiamo saltare più in alto, di darci almeno un paio di sassolini da rimettere nella giacca, di modo da restare coi piedi più ficcati nella schifosa terra.

Resta qualche fotografia, frasi decontestualizzate nella mente, un po’ di sabbia e la sensazione che sia appena passata, proprio passata, una traccia di nostalgia come il cerchio sul sottobicchiere alla fine della bevuta. E le cicatrici.

03.09.2009

La sua forma ricalca il processo patologico che l’ha determinata. Il tessuto cicatriziale non è identico al tessuto che rimpiazza ed è abitualmente di qualità funzionale inferiore.   [Wikipedia]

Siamo davvero più forti?

Siamo davvero più stanchi.

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Beograd 1999

Se verrà la guerra, Marcondirondero
se verrà la guerra, Marcondirondà
sul mare e sulla terra, Marcondirondera
sul mare e sulla terra chi ci salverà?

Ci salverà il soldato che non la vorrà
ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà.

Il 24 marzo 1999 la NATO, senza il consenso delle Nazioni Unite, iniziava a bombardare la Serbia e Belgrado. Oggi, dieci anni dopo, alle 12 in punto in tutto il paese si è osservato un minuto di silenzio, in memoria dei 3500 morti, di cui 2500 civili e 89 bambini.

La guerra è già scoppiata, Marcondirondero
la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà?

Ci aiuterà il buon Dio, Marcondirondera
ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà.

Buon Dio è già scappato, dove non si sa
buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà.

Che cosa ricordo, io, di quei giorni? Ricordo le immagini dei telegiornali, e mia mamma che ogni sera scoppiava in lacrime vedendo la sua bellissima città così martoriata. Ricordo l’abbattimento dell’antenna TV alta 200 metri sul monte Avala, uno dei simboli più cari ai cittadini belgradesi, tutto fuorché un obiettivo militare strategico. Ricordo il bombardamento della raffineria sul Danubio, e la nera nube che coprì tutta la città. Ricordo anche quando colpirono la sede della televisione nazionale RTS, e i giornalisti e tecnici di 20-30 anni dell’edizione notturna che vi restarono sotto. Ricordo mia nonna, e quanto era difficile stabilire un collegamento telefonico, le linee sempre occupate, o a vuoto. Ricordo poi quando riuscimmo finalmente a farla venire da noi, era maggio credo (i bombardamenti continuarono incessanti fino all’11 giugno). Era stanca e provata, non dormiva da settimane per le continue sirene, le bombe, gli aerei. Ricordo che anche qui, quando capitava di scorgere un aereo di linea venire od andare da Linate, iniziava ad agitarsi, si voltava dall’altra parte, quasi non riuscisse a scaricare più l’immagine e il trauma di altri aerei in altri cieli…  quasi che a sorvolarci non fossero vacanzieri e bagagli, ma missili intelligenti e bombe all’uranio impoverito. Ricordo quando qualche anno più tardi, vedendo un documentario in TV e sentendo quel suono familiare delle sirene antiaeree, le venne quasi un attacco di panico.

L’aeroplano vola, Marcondirondera
l’aeroplano vola, Marcondirondà.

Se getterà la bomba, Marcondirondero
se getterà la bomba chi ci salverà?

Ci salva l’aviatore che non lo farà
ci salva l’aviatore che la bomba non getterà.

Poi a Belgrado giunse l’estate, e io con lei. Cos’era rimasto? Ricordo i palazzi del governo, le sedi dell’esercito, il grattacielo del partito della moglie di Milošević sfregiati dalle bombe, i ponti del Danubio annegati nelle sue acque. Impressionanti voragini su edifici costruiti in cemento armato, piegati come carta. Porte che davano sul vuoto, brandelli di tende a penzolare dalle finestre, segni di schegge e vetri rotti su tutti i palazzi circostanti, a 100 metri almeno. Ricordo le scritte sui muri, i graffiti antiamericani e contro la guerra, quell’umorismo underground così tipico di Belgrado, che nessuna guerra è riuscita e riuscirà mai a sconfiggere: “Colombo, fottuta la tua curiosità!”, o “Portare la pace con le bombe è come preservare la verginità di una ragazza trombandola”. L’antiamericanismo era alquanto diffuso, e colpiva non solo gli Stati Uniti, ma tutti i suoi alleati nell’impresa: Italia, Inghilterra, Germania, Olanda… Ricordo un McDonald’s completamente distrutto dai dimostranti a marzo, lo stesso dicasi dei centri culturali tedesco e francese nella centralissima via Knez Mihajlova. Gli studenti di lingue fecero man bassa dei volumi, e poi se li scambiarono allegramente: “Hai Hugo? Io studio francese, dallo a me, prendi questo Goethe, tieni…”. Non era però un appoggio al regime, più semplicemente la disillusione e l’amarezza di un popolo orgoglioso che si vedeva ora abbandonato anche da quell’occidente in cui credeva e in cui si rispecchiava, facendone legittimamente parte. Dopo che venne colpita la residenza di Milošević si potè leggere anche “Slobo, proprio quando avevamo più bisogno di te, non eri in casa.”

La bomba è già caduta, Marcondirondero
la bomba è già caduta, chi la prenderà?

La prenderanno tutti, Marcondirondera
sian belli o siano brutti, Marcondirondà

Sian grandi o sian piccini li distruggerà
sian furbi o siano cretini li fulminerà.

Ricordo la preoccupazione di mio papà, che non ci vandalizzassero la macchina parcheggiata, visto che portava una targa italiana. Ricordo la difficoltà di trovare la benzina, nonostante la guerra fosse finita da diverse settimane, le pompe perennemente a secco, i venditori del mercato nero ai bordi delle strade con le loro taniche piene di chissà quali intrugli. La vita intanto correva come prima, le strade piene di gente, i negozi di grandi marchi, i chiassosi caffè all’aperto o sugli splav (grossi barconi) ormeggiati sul lungofiume. Ricordo i sacchi di sabbia, i bunker, le postazioni vuote dell’esercito, gli ostacoli anticarro in cemento sulla strada verso sud, andando in Grecia al mare. Ricordo di essere passato verso Grdelica, dove era stato colpito un treno civile proprio mentre attraversava un ponte ferroviaro sulla Morava. 14 morti e 16 feriti tra i passeggeri, la carcassa del treno era ancora lì, completamente carbonizzata. A 10 anni mi lasciò a bocca chiusa, ma mi fece meno effetto del suo stesso ricordo ora.

Ci sono troppe buche, Marcondirondera
ci sono troppe buche, chi le riempirà?

Non potremo più giocare al Marcondirondera
non potremo più giocare al Marcondirondà.

E voi a divertirvi andate un po’ più in là
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà.

La guerra è dappertutto, Marcondirondera
la terra è tutta un lutto, chi la consolerà?

Ci penseranno gli uomini, le bestie i fiori
i boschi e le stagioni con i mille colori.

Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più
viventi siam rimasti noi e nulla più.

La terra è tutta nostra, Marcondirondera
ne faremo una gran giostra, Marcondirondà.

Abbiam tutta la terra Marcondirondera
giocheremo a far la guerra, Marcondirondà…

Girotondo, Fabrizio De André, Tutti morimmo a stento (1968)


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