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Burkina Faso

Secondo le stime del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, il Burkina Faso è il terzo paese più povero al mondo, con un reddito pro capite annuo inferiore ai 250€. Il 62% della popolazione (13.200.000) vive cone meno di 1$ al giorno, e la maggior parte di questa fetta in condizioni di pura miseria – tecnicamente giudicata molto più grave della semplice povertà. Il tasso di alfabetizzazione si attesta attorno al 28,5% (2005), il 40% dei bambini non va a scuola (obbligatoria dai 7 ai 13 anni), e del restante 60% solo l’1-2% raggiunge l’università.

La speranza di vita è di 42 anni.

Cotone

La produzione di cotone è un pilastro portante dell’economia del Burkina, che pur attestandosi solo al 5-8% del PIL, rappresenta il 50-60% delle esportazioni, indispensabili per l’accumulo di valuta forte. Si stima che circa 700.000 persone (il 17% della popolazione) lavorino nel cotone, ma se si considera che mediamente in Africa, visti gli elevati tassi di disoccupazione, ogni individuo impiegato ne mantiene altri 15, è chiaro che questo lavoro rappresenti praticamente l’intera economia del paese.

Fluttuazioni del PIL e della produzione di cotone (Fonte: IMF)

Fluttuazioni del PIL e della produzione di cotone. (Fonte: IMF)

La qualità e la purezza del cotone sono le migliori al mondo, visto che tutto il lavoro viene svolto a mano con costi di produzione tra i più bassi, eppure sul mercato globale fatica ad attestarsi a prezzi competitivi, costringendo i produttori ad operare sottocosto.

Prezzi di produzione (rosso) e prezzi sul mercato globale (blu). (Fonte: IMF)

Prezzi di produzione (rosso) e prezzi sul mercato globale (blu). (Fonte: IMF)

Com’è possibile ciò, se il costo della manodopera è irrisorio (circa 50€/cent al giorno)?

Stati Uniti d’America: il governo degli USA elargisce sussidi annuali ai suoi coltivatori di cotone per un totale di 3 miliardi di $, applicando di fatto due pesi e due misure, imponendo forzosamente il liberismo economico ai paesi più deboli, e conducendo al contempo una politica protezionista  in difesa dei propri prodotti.

Se gli Stati Uniti abolissero i propri sussidi, il Burkina Faso otterrebbe profitti pari almeno a 122 milioni di €. I vari aiuti internazionali, i crediti elargiti da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, sommati raggiungono 30 milioni di €. È chiaro quindi che in un mercato equo il Burkina Faso non avrebbe bisogno d’indebitarsi per sviluppare il proprio paese (si stima che in Burkina siano già indebitati anche i neonati del 2035). Il solo lavoro dei contadini permetterebbe allo stato di costruire strade, scuole, ospedali e tutte le infrastrutture necessarie per garantire un futuro ai propri bambini.

PiantagioniIn ogni caso, la situazione attuale non è sostenibile nel lungo periodo: la monocoltura del cotone sta velocemente distruggendo i suoli, e vaste aree intensivamente coltivate a cotone sono oggi desertificate. Il cotone è stato venduto, il ricavo è stato speso, il suolo è oramai per sempre improduttivo. Il giorno in cui la produzione del cotone dovesse cessare, l’unico modo per sopravvivere sarebbe una migrazione di massa verso l’Europa, e non si parla più di centinaia di sbarchi, ma milioni di persone del Burkina Faso, del Niger, del Mali, del Benin e altri in transito verso il nostro continente. Spinti dalla miseria e dalla fame, non ci saranno bastioni, armi o muri in grado di difenderci dal loro assalto.

L’unica soluzione tollerabile è agire sin da subito, modificando le regole del gioco e della concorrenza sui mercati globali, permettendo ai paesi in via di sviluppo di partecipare in maniera realmente competitiva agli scambi internazionali, in modo da creare con le loro stesse forze valore, incrementare l’economia dei paesi africani e concedere il diritto e la possibilità di crescere ed immaginare un futuro migliore nel loro stesso paese. Questa strada comporterebbe ovviamente un serio ridimensionamento della ricchezza diffusa in Occidente, ma è l’unico modo per l’Occidente stesso di sopravvivere nel lungo periodo. L’alternativa è l’annientamento e l’inevitabile perdita dello scontro tra civiltà.

Non si tratta più di giustizia universale, ma di mera sopravvivenza, e di comprendere che tale sopravvivenza può passare solo attraverso quella dei popoli africani, e non il loro sfruttamento ad oltranza.

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Superstite

Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.

Barelle

Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.

Barelle 2

Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.

(Dalla relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)

Primo soccorso

Dedicato a chi ha la memoria breve.

A chi parla, e non sa.

A chi “se ne stiano a casa loro che ce ne sono già troppi”.

Ai capitani delle dieci imbarcazioni che non si sono fermate…

…ed ai 73 eritrei che avrebbero potuto salvare.

Alla Lega Nord, che prima del Barbarossa bisognerebbe guardare giusto a ieri.

Al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, amico e partner di successo della Guida della Rivoluzione Muammar Gheddafi, dal cui paese è partito l’ennesimo gommone, un paio di mesi dopo il bellissimo circo mediatico romano di parchi, tende, magliette della Roma, cammelli ed amazzoni.

Ai cinque fortunati sopravvissuti, che hanno appena vinto un biglietto gratuito e un calcio in culo per da dove arrivano.

Ai cadaveri che da settimane pescano al largo di Lampedusa.

Ai turisti e al loro sacrosanto diritto ad un bagno in pace, in un mare pulito.

A chi non coglie.

A chi coglie, e ancora non coglie.

A noi tutti, male non fa.

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Beograd 1999

Se verrà la guerra, Marcondirondero
se verrà la guerra, Marcondirondà
sul mare e sulla terra, Marcondirondera
sul mare e sulla terra chi ci salverà?

Ci salverà il soldato che non la vorrà
ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà.

Il 24 marzo 1999 la NATO, senza il consenso delle Nazioni Unite, iniziava a bombardare la Serbia e Belgrado. Oggi, dieci anni dopo, alle 12 in punto in tutto il paese si è osservato un minuto di silenzio, in memoria dei 3500 morti, di cui 2500 civili e 89 bambini.

La guerra è già scoppiata, Marcondirondero
la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà?

Ci aiuterà il buon Dio, Marcondirondera
ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà.

Buon Dio è già scappato, dove non si sa
buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà.

Che cosa ricordo, io, di quei giorni? Ricordo le immagini dei telegiornali, e mia mamma che ogni sera scoppiava in lacrime vedendo la sua bellissima città così martoriata. Ricordo l’abbattimento dell’antenna TV alta 200 metri sul monte Avala, uno dei simboli più cari ai cittadini belgradesi, tutto fuorché un obiettivo militare strategico. Ricordo il bombardamento della raffineria sul Danubio, e la nera nube che coprì tutta la città. Ricordo anche quando colpirono la sede della televisione nazionale RTS, e i giornalisti e tecnici di 20-30 anni dell’edizione notturna che vi restarono sotto. Ricordo mia nonna, e quanto era difficile stabilire un collegamento telefonico, le linee sempre occupate, o a vuoto. Ricordo poi quando riuscimmo finalmente a farla venire da noi, era maggio credo (i bombardamenti continuarono incessanti fino all’11 giugno). Era stanca e provata, non dormiva da settimane per le continue sirene, le bombe, gli aerei. Ricordo che anche qui, quando capitava di scorgere un aereo di linea venire od andare da Linate, iniziava ad agitarsi, si voltava dall’altra parte, quasi non riuscisse a scaricare più l’immagine e il trauma di altri aerei in altri cieli…  quasi che a sorvolarci non fossero vacanzieri e bagagli, ma missili intelligenti e bombe all’uranio impoverito. Ricordo quando qualche anno più tardi, vedendo un documentario in TV e sentendo quel suono familiare delle sirene antiaeree, le venne quasi un attacco di panico.

L’aeroplano vola, Marcondirondera
l’aeroplano vola, Marcondirondà.

Se getterà la bomba, Marcondirondero
se getterà la bomba chi ci salverà?

Ci salva l’aviatore che non lo farà
ci salva l’aviatore che la bomba non getterà.

Poi a Belgrado giunse l’estate, e io con lei. Cos’era rimasto? Ricordo i palazzi del governo, le sedi dell’esercito, il grattacielo del partito della moglie di Milošević sfregiati dalle bombe, i ponti del Danubio annegati nelle sue acque. Impressionanti voragini su edifici costruiti in cemento armato, piegati come carta. Porte che davano sul vuoto, brandelli di tende a penzolare dalle finestre, segni di schegge e vetri rotti su tutti i palazzi circostanti, a 100 metri almeno. Ricordo le scritte sui muri, i graffiti antiamericani e contro la guerra, quell’umorismo underground così tipico di Belgrado, che nessuna guerra è riuscita e riuscirà mai a sconfiggere: “Colombo, fottuta la tua curiosità!”, o “Portare la pace con le bombe è come preservare la verginità di una ragazza trombandola”. L’antiamericanismo era alquanto diffuso, e colpiva non solo gli Stati Uniti, ma tutti i suoi alleati nell’impresa: Italia, Inghilterra, Germania, Olanda… Ricordo un McDonald’s completamente distrutto dai dimostranti a marzo, lo stesso dicasi dei centri culturali tedesco e francese nella centralissima via Knez Mihajlova. Gli studenti di lingue fecero man bassa dei volumi, e poi se li scambiarono allegramente: “Hai Hugo? Io studio francese, dallo a me, prendi questo Goethe, tieni…”. Non era però un appoggio al regime, più semplicemente la disillusione e l’amarezza di un popolo orgoglioso che si vedeva ora abbandonato anche da quell’occidente in cui credeva e in cui si rispecchiava, facendone legittimamente parte. Dopo che venne colpita la residenza di Milošević si potè leggere anche “Slobo, proprio quando avevamo più bisogno di te, non eri in casa.”

La bomba è già caduta, Marcondirondero
la bomba è già caduta, chi la prenderà?

La prenderanno tutti, Marcondirondera
sian belli o siano brutti, Marcondirondà

Sian grandi o sian piccini li distruggerà
sian furbi o siano cretini li fulminerà.

Ricordo la preoccupazione di mio papà, che non ci vandalizzassero la macchina parcheggiata, visto che portava una targa italiana. Ricordo la difficoltà di trovare la benzina, nonostante la guerra fosse finita da diverse settimane, le pompe perennemente a secco, i venditori del mercato nero ai bordi delle strade con le loro taniche piene di chissà quali intrugli. La vita intanto correva come prima, le strade piene di gente, i negozi di grandi marchi, i chiassosi caffè all’aperto o sugli splav (grossi barconi) ormeggiati sul lungofiume. Ricordo i sacchi di sabbia, i bunker, le postazioni vuote dell’esercito, gli ostacoli anticarro in cemento sulla strada verso sud, andando in Grecia al mare. Ricordo di essere passato verso Grdelica, dove era stato colpito un treno civile proprio mentre attraversava un ponte ferroviaro sulla Morava. 14 morti e 16 feriti tra i passeggeri, la carcassa del treno era ancora lì, completamente carbonizzata. A 10 anni mi lasciò a bocca chiusa, ma mi fece meno effetto del suo stesso ricordo ora.

Ci sono troppe buche, Marcondirondera
ci sono troppe buche, chi le riempirà?

Non potremo più giocare al Marcondirondera
non potremo più giocare al Marcondirondà.

E voi a divertirvi andate un po’ più in là
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà.

La guerra è dappertutto, Marcondirondera
la terra è tutta un lutto, chi la consolerà?

Ci penseranno gli uomini, le bestie i fiori
i boschi e le stagioni con i mille colori.

Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più
viventi siam rimasti noi e nulla più.

La terra è tutta nostra, Marcondirondera
ne faremo una gran giostra, Marcondirondà.

Abbiam tutta la terra Marcondirondera
giocheremo a far la guerra, Marcondirondà…

Girotondo, Fabrizio De André, Tutti morimmo a stento (1968)


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