Giornale Il Caffé, 21/10/2009
Nel Regno Unito è in corso un acceso dibattito del quale da noi, qui in provincia, giunge appena qualche mormorio stentato. Oggetto della diatriba è l’annuncio che la banca d’investimenti Goldman Sachs, che si fa pernacchie della crisi sfornando bilanci trimestrali in netto avanzo uno dietro l’altro – il terzo e ultimo a oggi redatto mostra profitti pari a 3 mld/$ (2,11 mld/€), attesi in crescita per l’ultimo quarto dell’anno in corso – offrirà ai suoi 30.700 dipendenti, proiettando i dati al 31 dicembre, tra retribuzioni, bonus e benefit vari, la bellezza totale di 24 mld/$ (16 mld/€). Detto in altre parole, più di 520.000 € a testa, non così equamente distribuiti: ad alcuni top trader spetteranno premi da 27 milioni di €, ad altri 14, 7 e così via. Se così sarà, vorrà dire che nel 2009, con una crisi che fiduciosamente si ritiene già alle spalle ma dalla quale non si è propriamente usciti e, in verità, è difficile prevedere davvero quando, il gruppo americano oltrepasserà la soglia record registrata nel 2007 di 21 mld/$.
La stessa Goldman Sachs che meno di un anno fa ricevette aiuti statali per 10 miliardi di $, prontamente restituiti a luglio 2009, con una solerzia che in molti hanno un poco ingenuamente letto come dimostrazione di buona volontà, altri, più malignamente, sotto l’annuncio della presidenza Obama che i gruppi che hanno usufruito del piano di sostegno Tarp avrebbero avuto tetti di compenso per manager e dirigenti fissati dallo stato. Insomma, come diceva Giulio Andreotti, “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.
A mio vedere, cifre di queste dimensioni spingono un lettore interessato a porsi, a ritroso, una domanda fondamentale: cos’è Goldman Sachs? Ventiquattro miliardi di dollari sono forse troppi per disinnescare la domanda con un semplice “banca”.
GS è fondamentalmente una holding finanziaria, vigilata ora dalla Federal Reserve, che trae per la maggior parte profitti da operazioni su ogni sorta di mercato finanziario, scommettendo sul valore futuro dei più disparati asset: materie prime, tassi d’interesse, titoli azionari, indici, valute, in un far west nel quale i cowboy tra più famosi sono belli che stecchiti (Bear Stearns, Merrill Lynch, Lehman Brothers), e dove l’ultimo gringo rimasto, Goldman Sachs appunto, è ora padrone (o quasi) dell’intera prateria. Orbene, se però il nostro pistolero è il solo capace di centrare il bersaglio, sarà che ha la mano più ferma del west oppure è il bersaglio a materializzarsi dove lui spara? Detto meglio: se Goldman Sachs opera su mercati incerti e invisibili, scommettendo su valori futuri illeggibili ex ante, dove quindi tutto si gioca sulla quantità, qualità e attendibilità dell’informazione e di chi crea tale informazione, oltre che dal comportamento degli altri operatori (i defunti e i malaticci), quanto pesano le analisi stesse dei partner della Goldman sui risultati? Si tratta di stabilire, in breve, se non ci si trovi di fronte alle classiche profezie autorealizzanti, e quanto spazio sia quindi ancora concesso più che al rischio al vero e proprio azzardo. Certo resta che il banco vince sempre, se consideriamo il fatto che i vari compensi rappresentano quasi il 50% dei ricavi netti. Dato che la dice lunga sulla scala di valori e urgenze che guidano le scelte dei nostri bravi traders, senz’altro sempiterni innamorati della massimizzazione dei profitti, talebani neoclassici che si nascondono dietro il dogma mai dimostrato della perfetta razionalità dei mercati e, perché no, dei mercanti. Il chiasso alzato da chi dal gioco d’azzardo non è mai stato attratto, e perciò resta immune al fascino del tavolo verde della borsa, meno allo scandalo di premi milionari, è salito un po’ troppo: si è cercato di correre ai ripari promettendo che la Goldman devolverà forse più di un miliardo di dollari in beneficenza, il classico piatto di lenticchie per godersi il grosso della torta senza occhiate velenose dalla finestra.
Insomma, che etica e finanza non vadano a braccetto non mi pare una scoperta recente né poco condivisa, il vero nodo da sciogliere è quello di capire se ciò sia prima di tutto corretto e, ora come non mai, sicuro per i futuri sviluppi dell’economia globale, oppure se ci sia bisogno di regolamenti e controlli più rigidi e ricercati, senza per questo alzare lo spauracchio di un paventato spettro statalista. Qualsiasi marcato intervento di regolazione dovrà però essere adottato a livello mondiale, che sia l’imposizione di tetti massimi a commissioni e retribuzioni, oppure al rapporto d’indebitamento tra asset totale e capitale di rischio. Lo sforzo risulterebbe altrimenti non solo vano e controproducente, ma difficilmente realizzabile. Un argomento che sarebbe interessante portare al tavolo del G20, e verificare se sia troppo pretenzioso credere si possa cambiare qualcosa con la stessa rapidità con la quale si è saputo rispondere alla crisi nell’autunno dell’anno passato. A chi invece contro ogni evidenza storica crede ancora, o torna a farlo, negli ingranaggi perfetti di un mercato a orologeria, mi sento solo d’augurare un’orchestra decente e un concerto indimenticabile, mentre il Titanic corre verso il prossimo iceberg.
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